L’idea è stata accantonata più di 75 anni fa. Se dovesse essere riproposta oggi, però, porterebbe valanghe di denaro nelle casse dello Stato. Soldi facili e in continuo aumento. Il riferimento è alla tassa sul celibato, imposta ai tempi del regime fascista il 13 febbraio 1927.
Sposarsi costa, mantenere moglie e figli pure. Con una tassa di quel tipo, però, costa anche rimanere single. I soldi chiesti a partire dal 1927 per chi appartiene a questa categoria, che oggi sarebbe di gran lunga la predominante, non sono neanche pochi: 70 lire per uomini e donne tra i 25 e i 35 anni, aumentati a 100 fino ai 50 anni. Poi qualcosa in meno fino ai 65 anni. Questo, naturalmente, per la parte fissa del tributo: poi c’è anche quella variabile da calcolare in proporzione al reddito.
Lo scopo della tassa sul celibato, al momento dell’introduzione, non è quello di fare soldi. L’obiettivo è quello di incentivare il matrimonio. Più coppie, in teoria, significa più figli. E più figli corrispondono a soldati in più da poter schierare.
Non è l’unico sistema adottato per raggiungere il risultato. Si ricorre anche al premio per la natalità, più cospicuo rispetto agli attuali bonus bebè elargiti da alcuni Comuni. E poi anche esenzioni per le famiglie numerose.
Con la fine del regime fascista, tuttavia, tramonta anche l’idea della tassa sul celibato. Il Governo Badoglio, nel 1943, decide che non è più necessaria.
Scriviamo queste righe, naturalmente, incrociando le dita. Qualche politico ha già suggerito di reintrodurre la misura per contrastare il calo demografico e l’invecchiamento della popolazione. Un tema su cui i vari Governi, finora, non hanno mai preso provvedimenti. Se scoprono però che si può monetizzare anche il celibato, allora sì che saranno dolori per molti italiani.